Nel mondo della sicurezza sul lavoro è in corso una trasformazione silenziosa ma profonda. Sensori intelligenti collegati via IoT, caschi e DPI “smart”, algoritmi predittivi, realtà virtuale e aumentata stanno cambiando il modo di prevenire incidenti e malattie professionali. In molti Paesi queste tecnologie sono già integrate nei processi aziendali quotidiani; in Italia, invece, l’adozione procede a rilento.
Il ritardo non è una semplice impressione: basta confrontare il panorama delle PMI italiane con quello di settori analoghi in Germania o Stati Uniti per capire che qui la sicurezza “intelligente” è ancora appannaggio di poche multinazionali e di aziende d’avanguardia. La maggior parte delle imprese continua a basarsi su corsi frontali, modulistica cartacea e DPI standard, senza sfruttare appieno le possibilità offerte dall’innovazione.
Le ragioni di questa lentezza sono molte e si intrecciano. La struttura produttiva italiana è composta per oltre il 90% da piccole e micro imprese, realtà spesso con margini ridotti e scarsa possibilità di investire in soluzioni ad alto costo iniziale. In queste aziende, la sicurezza è ancora percepita più come un obbligo normativo da rispettare che come un vero motore di competitività.
A questo si aggiunge un fattore culturale: la diffidenza verso tecnologie che monitorano movimenti, prestazioni o parametri biometrici. Una resistenza che si accentua in un Paese dove l’età media di imprenditori e dirigenti è alta e dove il concetto di “controllo digitale” è ancora visto come intrusivo, più che protettivo.
Un’altra barriera è la burocrazia. Per approvare o certificare un nuovo dispositivo servono mesi, talvolta anni, tempi incompatibili con il ritmo dell’innovazione tecnologica. Gli incentivi esistono, ma sono raramente mirati alla sicurezza 4.0: spesso finanziano genericamente la trasformazione digitale, lasciando la sicurezza come effetto collaterale e non come obiettivo primario.
Poi c’è la questione delle competenze: integrare sensori IoT, gestire piattaforme di analisi AI o progettare formazione immersiva richiede figure specializzate. Molte aziende non dispongono internamente di queste professionalità e non sanno come reperirle o formarne di nuove.
Non mancano le iniziative. L’INAIL, ad esempio, ha lanciato progetti come Smartgrid per la sicurezza impiantistica e sta portando avanti il Piano Triennale per la Prevenzione 2025–2027, che include wearable, simulazioni VR e telemedicina, in collaborazione con grandi player come FS, Autostrade e ENEL. La campagna europea “Ambienti di lavoro sani e sicuri nell’era digitale” e il programma GoSafe2025 vanno nella stessa direzione.
Ma sono esperienze ancora troppo circoscritte. Il tessuto produttivo non riesce a fare massa critica e le buone pratiche rimangono confinate a settori specifici o a progetti pilota, senza trasformarsi in standard nazionali.
I dati sugli infortuni raccontano una verità scomoda: nonostante un calo del 4,5% dei casi mortali nel 2023, le denunce di infortunio superano ancora le 79.000 nei primi tre mesi del 2024. La tecnologia potrebbe contribuire a ridurre drasticamente questi numeri, ma senza una strategia nazionale chiara e un impegno condiviso tra istituzioni, imprese e lavoratori, l’Italia rischia di perdere il treno della sicurezza 4.0.
La sfida è duplice: investire in strumenti innovativi e, soprattutto, cambiare mentalità. Significa vedere la tecnologia non come un costo aggiuntivo, ma come un investimento strategico che tutela le persone, migliora la produttività e rafforza la competitività. In altri Paesi questa è già una realtà. In Italia, è ancora un traguardo da raggiungere.