PARTE 1: La fedeltà come compagnia e gratitudine, la salvezza come incontro che si rinnova
Chi siamo noi, se non coloro che hanno avuto la grazia di incontrare Cristo? Ma l’incontro non è un possesso, è un avvenimento che chiede di riaccadere. Non si tratta di un ricordo statico, ma di una Presenza che domanda continuità. L’uomo, infatti, non ha la forza di essere fedele da solo: ha bisogno di una compagnia, di una condivisione, di una convivenza.
Don Giussani ci ricorda che «la compagnia concreta, dove accade l’incontro con Cristo, diventa luogo dell’appartenenza del nostro io». È questa appartenenza che ci rende reali, ci dà forma, ci salva. Nessuno si salva da solo: perché nessuno può portare a termine il cammino cristiano isolandosi.
Il nostro cuore è fatto per la comunione. Papa Benedetto XVI scriveva: «Non si può credere da soli, come non si può vivere da soli. La fede è sempre condivisione» (Spe salvi, 14). La fede è ecclesiale, è popolo, è volto amico.
Ed è per questo che serve una compagnia che ci regga e ci corregga, come diceva san Giovanni Paolo II: «La Chiesa è una compagnia fatta per vivere nella carità. È questa carità che permette di vivere la verità, di essere liberi, di perdonare e di ricominciare».
Essere cristiani significa accettare che da soli cadiamo, dimentichiamo, ci distraiamo. Don Giussani insiste: «L’uomo è fatto per l’incontro, e solo nell’incontro con una Presenza può resistere alla dimenticanza». La fedeltà, allora, non è una virtù naturale, ma è un frutto della grazia. E la grazia è sempre l’iniziativa di Dio, che ci chiama, ci accoglie, ci perdona.
Il nostro peccato, il nostro errore, il nostro limite non sono ostacoli alla salvezza, ma – se riconosciuti – diventano la porta per la misericordia. Come diceva il Cardinale Biffi: «La Chiesa non è la comunità dei perfetti, ma dei perdonati». Chi pensa di potersi salvare da solo, chi si scandalizza del limite proprio e altrui, non ha capito il cuore della fede: «Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).
La vita cristiana è allora un ritorno continuo all’origine, incontro dopo incontro, perché il cuore non perda la gratitudine per ciò che ha vissuto. Ma questa gratitudine va alimentata: con i sacramenti, con la preghiera, con la presenza fisica di una compagnia in cui l’umano venga sostenuto.
Papa Francesco, nel suo pontificato, ci ha ricordato che «il tempo è superiore allo spazio» e che «la realtà è più importante dell’idea»: ciò significa che solo nella concretezza dell’incontro possiamo riscoprire la forza per camminare. La comunità non è una struttura ideale: è il luogo dove ci si guarda con misericordia e ci si ricorda chi siamo, e per Chi viviamo.
Nessuno si salva da solo, perché la salvezza è Cristo, ed Egli ha scelto di rimanere con noi nella carne di un popolo, nella compagnia dei fratelli, nella comunità visibile. Il tempo stringe, e non possiamo permetterci di perdere ciò che ci salva. Come dice Giussani: «Il sacrificio più grande è dare la vita per l’opera di un Altro».
E allora camminiamo insieme, correggendoci, sorreggendoci, amandoci con tenerezza, come amici secondo un incontro fatto. La Chiesa è questo: un popolo salvato, ferito, ma sorretto dalla Presenza di Cristo che si rende visibile in una compagnia.
PARTE 2: LA CHIESA NON È UN’OPERA PERFETTA. È UNO SPAZIO DI BISOGNO.
Il limite come via alla verità, e la fede come adesione alla realtà
“Fatti non foste a viver come bruti…”
…ma bruti siamo, quando pretendiamo una perfezione che non ci appartiene.
- La pretesa della perfezione è ideologia
Pretendere che la Chiesa, o l’opera cui aderiamo, sia perfetta, senza ferite, senza peccati, significa proiettare su di essa un’ideologia, non aderirvi realmente.
Significa voler decidere a priori cosa essa dovrebbe essere, come se potessimo costruirla noi.
Ma la Chiesa non è una costruzione nostra, è un dono. È una realtà donata, non programmata.
Come diceva don Giussani:
“La pretesa di cambiare la realtà a partire da un’immagine che ci facciamo di essa è la radice di ogni errore.”
La Chiesa non è fatta per soddisfare le nostre aspettative, ma per soddisfare il nostro bisogno. E il nostro bisogno è immenso, abissale, fatto di lacrime, fatica, solitudine, limite.
- La violenza per l’ideale
Voler un’opera senza peccato è volerla senza Cristo.
Perché Cristo è venuto proprio per i peccatori, per i malati, non per i sani.
“Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Lc 5,32).
Quando giudichiamo l’opera per il peccato che vi vediamo dentro, o nei suoi membri, è spesso perché non vogliamo riconoscere il nostro.
Allora ci scandalizziamo degli altri, come se non avessimo bisogno anche noi del perdono.
Ma la Chiesa non è un’assemblea di santi. È una compagnia di salvati.
Come scriveva il Cardinale Biffi:
“La Chiesa è la compagnia di quelli che hanno riconosciuto di essere peccatori e sono stati perdonati. È per questo che c’è posto per tutti.”
- Il limite come luogo di Cristo
L’uomo non si salva da sé. Lo abbiamo detto. Ma lo dimentichiamo.
Ogni volta che ci scandalizziamo del peccato altrui, o della confusione che vediamo nella Chiesa, è perché ci siamo allontanati dal senso del nostro bisogno.
Cristo si è fatto carne in mezzo al limite, e proprio per questo è speranza.
“Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20).
Dobbiamo reimparare a non stupirci della fatica, dell’incomprensione, delle ferite.
Tutto questo non è lo scandalo, è il terreno. È lo scenario in cui la redenzione accade.
- La Chiesa è l’ospedale da campo
Papa Francesco ci ha offerto un’immagine fortissima:
“La Chiesa non è una dogana. È un ospedale da campo. Qui si curano ferite, non si controllano passaporti.”
È lo spazio dove possiamo essere visti per ciò che siamo e amati così.
Ma questo amore ci cambia. Non perché ci giudica, ma perché ci prende sul serio.
Chi pretende una Chiesa perfetta, non ha capito che Cristo è venuto proprio per ferirsi con noi.
Per rimanere con noi, anche nel buio.
- La bellezza di una compagnia imperfetta
Il grande problema del nostro tempo non è il peccato: è la pretesa di non aver bisogno di salvezza.
Quando si vive la vita cristiana con onestà, ci si accorge che si è continuamente in difetto.
Ma proprio questo difetto apre alla speranza, perché Cristo è il compimento che ci manca.
Come diceva don Giussani:
“La Chiesa è il luogo dove l’uomo può essere guardato fino in fondo e amato lo stesso.”
È questo sguardo che ci salva. Non il moralismo. Non l’organizzazione perfetta. Non la militanza sterile.
La vera adesione è gratitudine per ciò che c’è, non pretesa per ciò che manca.
Perché ciò che manca è la parte che Cristo vuole compiere in noi, non da soli, ma con noi.
E allora la nostra posizione è una sola: umiltà e fedeltà.
Perché in fondo, se fossimo perfetti, non avremmo bisogno di Cristo.
Ma proprio il nostro limite, l’errore, il peccato… sono il segno che abbiamo bisogno di Lui più di tutto.
E Lui non si scandalizza.
Ci prende per mano. E ci dice, oggi come ieri:
“Seguimi.”