Giancarlo Restivo

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PARTE 1: La fedeltà come compagnia e gratitudine, la salvezza come incontro che si rinnova

Chi siamo noi, se non coloro che hanno avuto la grazia di incontrare Cristo? Ma l’incontro non è un possesso, è un avvenimento che chiede di riaccadere. Non si tratta di un ricordo statico, ma di una Presenza che domanda continuità. L’uomo, infatti, non ha la forza di essere fedele da solo: ha bisogno di una compagnia, di una condivisione, di una convivenza.

Don Giussani ci ricorda che «la compagnia concreta, dove accade l’incontro con Cristo, diventa luogo dell’appartenenza del nostro io». È questa appartenenza che ci rende reali, ci dà forma, ci salva. Nessuno si salva da solo: perché nessuno può portare a termine il cammino cristiano isolandosi.

Il nostro cuore è fatto per la comunione. Papa Benedetto XVI scriveva: «Non si può credere da soli, come non si può vivere da soli. La fede è sempre condivisione» (Spe salvi, 14). La fede è ecclesiale, è popolo, è volto amico.

Ed è per questo che serve una compagnia che ci regga e ci corregga, come diceva san Giovanni Paolo II: «La Chiesa è una compagnia fatta per vivere nella carità. È questa carità che permette di vivere la verità, di essere liberi, di perdonare e di ricominciare».

Essere cristiani significa accettare che da soli cadiamo, dimentichiamo, ci distraiamo. Don Giussani insiste: «L’uomo è fatto per l’incontro, e solo nell’incontro con una Presenza può resistere alla dimenticanza». La fedeltà, allora, non è una virtù naturale, ma è un frutto della grazia. E la grazia è sempre l’iniziativa di Dio, che ci chiama, ci accoglie, ci perdona.

Il nostro peccato, il nostro errore, il nostro limite non sono ostacoli alla salvezza, ma – se riconosciuti – diventano la porta per la misericordia. Come diceva il Cardinale Biffi: «La Chiesa non è la comunità dei perfetti, ma dei perdonati». Chi pensa di potersi salvare da solo, chi si scandalizza del limite proprio e altrui, non ha capito il cuore della fede: «Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

La vita cristiana è allora un ritorno continuo all’origine, incontro dopo incontro, perché il cuore non perda la gratitudine per ciò che ha vissuto. Ma questa gratitudine va alimentata: con i sacramenti, con la preghiera, con la presenza fisica di una compagnia in cui l’umano venga sostenuto.

Papa Francesco, nel suo pontificato, ci ha ricordato che «il tempo è superiore allo spazio» e che «la realtà è più importante dell’idea»: ciò significa che solo nella concretezza dell’incontro possiamo riscoprire la forza per camminare. La comunità non è una struttura ideale: è il luogo dove ci si guarda con misericordia e ci si ricorda chi siamo, e per Chi viviamo.

Nessuno si salva da solo, perché la salvezza è Cristo, ed Egli ha scelto di rimanere con noi nella carne di un popolo, nella compagnia dei fratelli, nella comunità visibile. Il tempo stringe, e non possiamo permetterci di perdere ciò che ci salva. Come dice Giussani: «Il sacrificio più grande è dare la vita per l’opera di un Altro».

E allora camminiamo insieme, correggendoci, sorreggendoci, amandoci con tenerezza, come amici secondo un incontro fatto. La Chiesa è questo: un popolo salvato, ferito, ma sorretto dalla Presenza di Cristo che si rende visibile in una compagnia.

PARTE 2: LA CHIESA NON È UN’OPERA PERFETTA. È UNO SPAZIO DI BISOGNO.

Il limite come via alla verità, e la fede come adesione alla realtà

“Fatti non foste a viver come bruti…”
…ma bruti siamo, quando pretendiamo una perfezione che non ci appartiene.

  1. La pretesa della perfezione è ideologia

Pretendere che la Chiesa, o l’opera cui aderiamo, sia perfetta, senza ferite, senza peccati, significa proiettare su di essa un’ideologia, non aderirvi realmente.
Significa voler decidere a priori cosa essa dovrebbe essere, come se potessimo costruirla noi.
Ma la Chiesa non è una costruzione nostra, è un dono. È una realtà donata, non programmata.
Come diceva don Giussani:

“La pretesa di cambiare la realtà a partire da un’immagine che ci facciamo di essa è la radice di ogni errore.”

La Chiesa non è fatta per soddisfare le nostre aspettative, ma per soddisfare il nostro bisogno. E il nostro bisogno è immenso, abissale, fatto di lacrime, fatica, solitudine, limite.

  1. La violenza per l’ideale

Voler un’opera senza peccato è volerla senza Cristo.
Perché Cristo è venuto proprio per i peccatori, per i malati, non per i sani.

“Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Lc 5,32).

Quando giudichiamo l’opera per il peccato che vi vediamo dentro, o nei suoi membri, è spesso perché non vogliamo riconoscere il nostro.
Allora ci scandalizziamo degli altri, come se non avessimo bisogno anche noi del perdono.

Ma la Chiesa non è un’assemblea di santi. È una compagnia di salvati.
Come scriveva il Cardinale Biffi:

“La Chiesa è la compagnia di quelli che hanno riconosciuto di essere peccatori e sono stati perdonati. È per questo che c’è posto per tutti.”

  1. Il limite come luogo di Cristo

L’uomo non si salva da sé. Lo abbiamo detto. Ma lo dimentichiamo.
Ogni volta che ci scandalizziamo del peccato altrui, o della confusione che vediamo nella Chiesa, è perché ci siamo allontanati dal senso del nostro bisogno.

Cristo si è fatto carne in mezzo al limite, e proprio per questo è speranza.

“Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20).

Dobbiamo reimparare a non stupirci della fatica, dell’incomprensione, delle ferite.
Tutto questo non è lo scandalo, è il terreno. È lo scenario in cui la redenzione accade.

  1. La Chiesa è l’ospedale da campo

Papa Francesco ci ha offerto un’immagine fortissima:

“La Chiesa non è una dogana. È un ospedale da campo. Qui si curano ferite, non si controllano passaporti.”

È lo spazio dove possiamo essere visti per ciò che siamo e amati così.
Ma questo amore ci cambia. Non perché ci giudica, ma perché ci prende sul serio.

Chi pretende una Chiesa perfetta, non ha capito che Cristo è venuto proprio per ferirsi con noi.
Per rimanere con noi, anche nel buio.

  1. La bellezza di una compagnia imperfetta

Il grande problema del nostro tempo non è il peccato: è la pretesa di non aver bisogno di salvezza.

Quando si vive la vita cristiana con onestà, ci si accorge che si è continuamente in difetto.
Ma proprio questo difetto apre alla speranza, perché Cristo è il compimento che ci manca.

Come diceva don Giussani:

“La Chiesa è il luogo dove l’uomo può essere guardato fino in fondo e amato lo stesso.”

È questo sguardo che ci salva. Non il moralismo. Non l’organizzazione perfetta. Non la militanza sterile.

La vera adesione è gratitudine per ciò che c’è, non pretesa per ciò che manca.
Perché ciò che manca è la parte che Cristo vuole compiere in noi, non da soli, ma con noi.
E allora la nostra posizione è una sola: umiltà e fedeltà.

Perché in fondo, se fossimo perfetti, non avremmo bisogno di Cristo.
Ma proprio il nostro limite, l’errore, il peccato… sono il segno che abbiamo bisogno di Lui più di tutto.

E Lui non si scandalizza.
Ci prende per mano. E ci dice, oggi come ieri:

“Seguimi.”

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